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Federica Manzon, Alma, Feltrinelli, 2024
La riflessione sui concetti di appartenenza e memoria è al centro di questo romanzo, vincitore dell’ultimo Premio Campiello. Attraverso le vicende e le dinamiche di un gruppo di personaggi strettamente legati fra loro ma incapaci di unione, Federica Manzon rilegge la storia jugoslava degli ultimi cinquant’anni, dai primi anni Settanta, dominati da Tito, all’oggi, passando per l’affermarsi dei nazionalismi e le guerre civili che hanno infiammato il Paese. Questo intreccio tra storia privata e Storia non solo non è mai didascalico, ma permette di interrogarsi sulla necessità degli ideali così come sulle loro conseguenze, sui bisogni identitari di individui e comunità, sulle modalità con cui il presente deve rapportarsi al passato affinché si mantenga un nesso vitale e, al contempo, possa nascere qualcosa di nuovo nelle società, nella politica, nelle istituzioni civili, nella vita degli individui.
La protagonista è Alma, cresciuta fra Trieste e il Carso. Straniera ovunque, oggi abita a Roma, ma si sente di passaggio e rifugge ogni relazione stabile. A richiamarla nella città in cui è nata è suo padre: in una lettera giunta poco dopo la sua morte, le chiede di rientrare a Trieste per recuperare un’eredità, al momento in mano a Vili, l’uomo che conosce sin dall’infanzia e che non vede da tempo. Avevano entrambi 10 anni quando è venuto a vivere con Alma e da allora sono stati avversari, amici, amanti, si sono avvicinati e allontanati, hanno condiviso alcune cose e sono stati divisi da molte altre. In ogni caso, lei non lo ha mai capito del tutto. D’altronde questa è la sua caratteristica essenziale: nonostante la scelta di diventare giornalista, le è impossibile cogliere fino in fondo ciò che le capita attorno. Il suo modo di rapportarsi agli eventi è iscritto nell’immagine che troviamo all’inizio del romanzo, quando, ancora bambina, osserva da una finestra chiusa una sala dove sono radunate molte persone, tra cui suo padre. Non sente le voci e non sa interpretare ciò che vede, però resta turbata dalla scena, della quale intuisce il senso senza poterlo davvero afferrare. Questa visione incompleta e limitata spiega anche perché gli eventi storici a cui il romanzo si riferisce siano solo tratteggiati, mai descritti in dettaglio. Ciò ha inoltre il pregio di spingere il lettore ad approfondire la conoscenza del conflitto che ha distrutto la Jugoslavia – e in filigrana corre sempre il parallelo con la guerra tra Russia e Ucraina. A questo procedere per accenni si lega anche la scelta di non dare un nome a molti personaggi né ai luoghi: Trieste è la città, Roma la capitale, mentre l’isola è la croata Brioni, dove Tito aveva stabilito la sua residenza ufficiale. Ma è Trieste il centro del romanzo, un posto reale e allo stesso tempo uno specchio che rimanda ad altro. Città di confine in tutti i sensi, territoriale, culturale, politico, linguistico, incerta sulla propria appartenenza esattamente come Alma, a disagio con ogni definizione e identificazione.
Dopo molti anni, Alma torna dunque a Trieste; ne percorre le strade e scivola nel ricordo. La narrazione oscilla continuamente tra presente e passato, seguendo il filo della memoria. Alma ricorda suo padre, uno slavo dalle origini ignote, un intellettuale affascinante e misterioso, sempre assente, sempre di là, da qualche parte a Est, oltre il confine; quando torna, all’improvviso e per brevi periodi, è un turbine di vitalità e affetto, poi di colpo sparisce. Alma non sa dove va e perché, capisce solo che lavora a stretto contatto con Tito e con chi gli subentra dopo la sua morte. È un uomo che vive di parole ma tace sull’essenziale e non sa prendersi cura dei problemi concreti dei suoi familiari. L’abbandono da parte di questo padre idealista e irrequieto produce la prima delle lacerazioni in Alma. Se il padre è una presenza intermittente, la madre è una donna distante e disattenta, che trascura la casa e la figlia e ha centrato la vita affettiva sul marito. Alma trova un riparo occasionale dai nonni, solidi borghesi radicati in una Trieste ancora asburgica, ricca, raffinata, colta, salottiera. Il loro ambiente è tradizionale, ordinato e di buon gusto, ma anche artefatto e opprimente, e per questo la madre di Alma ha scelto di tagliare i ponti. Ha sposato un uomo senza passato, ha preso casa sul Carso e ha affiancato Franco Basaglia, “il dottore che voleva fare la rivoluzione” e che proprio a Trieste avvia la riforma delle strutture psichiatriche. L’arrivo improvviso di Vili, il bambino serbo che sembra condividere molto con suo padre, suscita in Alma gelosia e senso di esclusione. Dal canto suo, Vili soffre per essere stato tolto dal suo mondo e trapiantato in un altro, ma non lo dà a vedere e non chiede che consolino la sua nostalgia, di cui peraltro nessuno si accorge. Il senso di solitudine, la mancanza di punti di riferimento, il desiderio di sentirsi parte di una comunità, il rapporto ambiguo con il vissuto antecedente, che rimpiange e che non ha gli strumenti per elaborare, lo porta a confondere l’identità con l’identificazione acritica con il suo popolo, l’appartenenza con il nazionalismo, in una prefigurazione di ciò che sta per avvenire oltre il confine e che il romanzo ci fa rivivere. Insomma, già nelle dinamiche di questa famiglia viene messa alla prova la fede paterna in un mondo di liberi e uguali, esente da particolarismi; invece, qui ciascuno procede per la sua strada, condividendo poco e conoscendo poco gli altri. Alma cresce confusa, inquieta, divisa tra più anime e fedeltà: i nonni, il padre, Vili, Trieste, il Carso, Roma. Spinta dalle teorie e dall’esempio paterno, evita legami e radici e vive in uno stato di perenne sospensione, chiusa in una bolla che la protegge e al contempo la isola. A liberarla, per quanto possibile, sarà la riflessione di cui si fa portavoce, il dialogo a distanza tra il nonno, il padre e Vili sul passato come prigione, come gravame e causa di divisioni oppure come eredità da conoscere, studiare e capire affinché non venga usata e manipolata da altri.
Francesca